L’Europa dell’est è una leggenda dell’ovest

Ci sono stati due momenti particolari in cui mi sono reso conto che esisteva una cosa precisa chiamata Europa dell’est diversa dall’Europa dell’ovest, ed entrambi risalgono a quando avevo appena l’età per sapere cos’era l’Unione Sovietica. Uno è il Natale del 1989, nell’appartamento di mia nonna sull’isola di Wight, un posto lussuoso per guardare, su Bbc News, l’insurrezione in Romania e la successiva esecuzione in diretta tv di Nicolae ed Elena Ceauşescu, e imparare parole nuove come “dittatore” e “plotone d’esecuzione”. Alla tv si sentiva ripetere spesso anche la parola “comunismo”, ma i miei genitori trotskisti si definivano “socialisti” piuttosto che “comunisti”, perciò questo non mi preoccupava. Quello che invece mi preoccupava era guardare l’Atlante dei bambini che mi aveva comprato mia madre alla fine degli anni ottanta e scoprire l’esistenza di un paese molto, molto grande che si chiamava Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Essendo il classico bambino terribilmente petulante, chiesi: “Noi siamo socialisti, vero? Quindi questo è il nostro paese?”. “Quelli non sono socialisti. È complicato”, rispose mia madre rifiutandosi di dare altre spiegazioni.

Il ricordo successivo risale a qualche anno dopo e riguarda una mappa della Lufthansa che mio padre aveva portato a casa dal lavoro, dove quello spazio si era improvvisamente riempito con più di una decina di nuovi paesi, tutti con nomi incredibilmente evocativi: Bielorussia! Azerbaigian! Kirghizistan!

A casa nostra c’erano immagini di europei dell’est dappertutto. Un po’ di Lenin qua e là (chissà perché mi persi il significato di tutte quelle effigi di Lenin abbattute dappertutto che si vedevano in tv e sul giornale), ma soprattutto Lev Trotskij che, secondo una recente mappa online che ho trovato, è ancora il personaggio più famoso nato in quello che oggi è lo stato indipendente dell’Ucraina, una cosa che lì viene raramente discussa e sicuramente non celebrata. C’era un grande manifesto di Trotskij proprio accanto alla porta d’ingresso di casa nostra: era avanti negli anni, aveva gli occhiali e somigliava stranamente al colonnello Sanders del Kentucky Fried Chicken. Molti anni più tardi, dopo aver messo piede per la prima volta sul sacro suolo di Pietrogrado, mia madre – che, come chiunque altro della sua tendenza politica, considerava tutto quello che era successo tra il 1924 e il 1991 “stalinismo” e meritevole solo di disprezzo – disse di aver sempre desiderato andarci perché “malgrado tutto quello che è successo dopo, loro lo avevano fatto, giusto? Avevano fatto lo strappo”. Se hai vissuto gran parte della tua vita immaginando che un giorno ci sarà un evento sconvolgente e le masse insorgeranno, provi una soggezione quasi religiosa nel posto in cui è successo davvero. I trotskisti sono gli anglicani del comunismo, perciò non stupisce che il Regno Unito sia stato uno dei pochi luoghi in cui, negli anni ottanta, il movimento trotskista diventò più grande del partito comunista ufficiale.

Quello che dovrei scrivere ora è un pezzo straziante su come non abbiamo veramente capito l’Europa dell’est e su come quel mondo di “russi morti” (ebrei ucraini morti, in questo caso) fosse un culto senza nessunissimo rapporto con la realtà che le persone costrette a vivere in quegli stati erano state obbligate a sopportare, una realtà che quelle persone stavano entusiasticamente barattando con le gioie del capitalismo da noi contestate e combattute punto per punto. Non lo farò, temo. Trovo offensivamente antistorico sottintendere che persone come i miei genitori, i metalmeccanici, i minatori e le masse di disoccupati che costituivano il grosso degli attivisti dei partiti di sinistra occidentali fossero in qualche modo responsabili. Forse questo spiega perché nell’Europa centrale e orientale si parla del comunismo occidentale come se fosse stato guidato da Jean-Paul Sartre e avesse i suoi più grossi battaglioni alla Sorbona anziché nelle fabbriche di automobili.

Naturalmente, trovo il culto di Trotskij spaventoso e un po’ ipocrita per quel che riguarda il fondamentale ruolo nel creare l’apparato repressivo che poi Stalin avrebbe rivolto contro di lui. Trovo gran parte delle analisi trotskiste dell’Unione Sovietica e del sistema che impose sull’Europa centrale e orientale particolarmente inutili, ma trovo anche degno di nota il fatto che la “sinistra occidentale”, sistematicamente denunciata per il suo modo di raccontare il socialismo reale, avesse assolutamente ragione su quello che sarebbe successo dopo. Come diceva una barzelletta russa degli anni novanta, “i comunisti ci hanno mentito sul comunismo, ma ci hanno detto la verità sul capitalismo”. Questo ci ricorda che l’incomprensione era reciproca: la conoscenza del capitalismo occidentale a est era scarsa quasi quanto quella del funzionamento del socialismo reale a ovest. Per gran parte della sinistra occidentale, dopo il 1989 questa zona d’Europa è semplicemente scomparsa dalla mappa, è diventata un’area priva di interesse politico e di speranza, una sorta di distopia, mai discussa o analizzata, ogni tanto compianta.

Il mio interesse per l’Europa centrale e orientale è ancora centrato, temo, su quello che successe con lo strappo, in parte perché offre decine di lezioni su come non fare uno strappo, ma anche per la cultura che lì esisteva in quel periodo e per il modo in cui la storia di quei luoghi suggerisce – spesso si tratta di poco più che suggerimenti – come potrebbe essere una vita non capitalista, un’arte non capitalista, una città non capitalista. Il mio interesse principale è per quello che ha smesso di esistere trent’anni fa. Sono perfettamente consapevole che può essere irritante per tante persone in Europa centrale e orientale, non ultimi gli intellettuali. Per queste persone l’importante era diventare in qualche modo “normali”, dove la normalità era sostanzialmente la Germania Ovest a sinistra e gli Stati Uniti a destra, cosa che in gran parte del resto del mondo avrebbe lasciato molta gente perplessa. Sono anche perfettamente consapevole che, soprattutto negli anni trenta, quaranta e cinquanta, persone che si definivano socialiste e comuniste hanno commesso ai danni di questi paesi orrori uguagliati solo dalle più infime bassezze dell’imperialismo e superati solo dal fascismo.

Nonostante questo, guardo questa regione da socialista. Ma quando mi chiedono del 1989, lo guardo non solo come uomo di sinistra occidentale, ma anche come cittadino di un’isola all’estremità nordoccidentale d’Europa che non ha mai confinato con un paese socialista. È difficile dare un’idea del livello di ignoranza che esiste nel Regno Unito sull’Europa in generale, ma in particolare di quella dell’est. L’est viene visto quasi interamente in termini di guerra fredda. “Sei mai stato a Poznań?”, chiede una spia in un adattamento televisivo della Talpa di John le Carré, come se Poznań fosse il posto peggiore del mondo e non, come di fatto è, una città piuttosto piacevole. Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, nella cultura post punk ci fu perfino, come racconta diffusamente Agata Pyzik in Poor but sexy. Culture clashes in Europe east and west (Poveri ma sexy. Scontri culturali nell’Europa dell’est e dell’ovest), la breve moda della desolazione esteuropea, innescata dalla Warszawa spazzata dal vento di David Bowie.

I primi rapporti di massa dei britannici con l’“Europa dell’est” – come ovviamente la chiamiamo tutti – arrivarono con i viaggi a buon mercato in città a buon mercato che si rivelarono di una bellezza da capogiro, con i loro storici paesaggi urbani molto meglio conservati che in quasi tutte le grandi città del Regno Unito. Prima Praga, Budapest e Cracovia (dove una volta, nel 2013, vidi un cartello nella vetrina di un bar che diceva: “No british tourists, please”), e poi Riga, Vilnius e Tallinn. Leopoli stava per diventare la prossima tappa, se non fosse stato per una guerra a qualche centinaio di chilometri di distanza. Questo turismo si basava su un concetto kitsch di bellezza, che di solito coniuga il patrimonio architettonico con i superalcolici a basso costo e l’industria del sesso. Dopo arrivò la migrazione di massa – per lo più da Polonia, Lituania e Lettonia, e in misura minore da Slovacchia, Bulgaria e Romania – sollecitata dal Regno Unito (insieme all’Irlanda e alla Svezia), che aprì il suo mercato del lavoro agli europei dell’est prima di molti altri paesi dell’Unione europea. Il razzismo che ne seguì non va sottovalutato, spesso è stato perfino più violento del razzismo tradizionale rivolto contro i migranti che fino a tempi recenti venivano dalle colonie. Un giornale di destra come il Daily Mail può lamentare il maltrattamento degli immigrati dei Caraibi per colpa del crudele “ambiente ostile” creato da Theresa May quando era ministra dell’interno, e contemporaneamente pubblicare di continuo storie spaventose sugli esteuropei (i romeni sembrano ispirare particolare terrore). Le analisi della Brexit hanno sostenuto che moltissimi voti a favore dell’uscita dall’Unione europea sono venuti da paesi e città che in passato avevano bassi livelli d’immigrazione, ma dopo il 2004 si sono trovati davanti a piccoli ma significativi insediamenti di europei dell’est. “Da dove sono venuti tutti questi est europei?”, fu la domanda di Gillian Duffy, la donna con cui Gordon Brown ebbe un involontario scontro nel 2010. Paradossalmente, Duffy era di Rochdale, una delle tante città industriali del nordovest inglese che dopo il 1945 accolsero cittadini polacchi e baltici rimasti senza patria.

Un ricordo più recente risale a quasi dieci anni fa, il dicembre 2009, per essere esatti. Trascorsi la mia seconda notte a Varsavia, la città dove avrei vissuto a intervalli dal 2010 al 2015, in compagnia di alcuni rappresentanti dell’intellighenzia in un lussuoso appartamento di un alto palazzo dei quartieri centrali, tutto rivestimenti scintillanti, ampi balconi e lucidi pavimenti di marmo. Ero, lo confesso, piuttosto emozionato dalla scoperta che “l’intellighenzia” esisteva ancora, una cosa a cui non ero stato preparato dall’idea della sinistra occidentale secondo la quale questa parte del mondo era stata svuotata di tutto a parte i soldi, il porno e gli stucchi. 

Ero lì per quella che oggi è un’amicizia, ma che per anni diventò una relazione, con un critico di musica e poesia che viveva in un altro bel palazzo dall’altra parte della strada. L’appartamento era proprietà del direttore di una rivista anticlericale, un uomo solo qualche anno più vecchio di me che si definiva “un semplice comunista”. Quella che ricordo di più fu una discussione che ebbe su questo argomento con un intellettuale liberale più anziano, anche lui destinato a rimanere anonimo, che negli anni ottanta era stato molto impegnato nel movimento di Solidarność, era finito in carcere durante la legge marziale e aveva scritto una dura critica al movimento dopo che questo era andato al potere. Scorse molta vodka e poi il vecchio liberale disse al comunista di essere nato a Vorkuta; perfino allora sapevo che c’era solo un motivo per cui negli anni cinquanta un polacco poteva essere nato in uno dei più grandi gulag sovietici. Dopo questa rivelazione, i due intonarono insieme canti rivoluzionari in russo e in polacco.

Fu la prima di quelle che sarebbero diventate molte sorprese. L’intellighenzia esisteva ancora, alcuni dei suoi esponenti erano di sinistra e i ricordi del recente passato erano ancora eccezionalmente vivi. E in giro c’era anche un bel po’ di ottima produzione grafica. Ma l’altra grande sorpresa fu un posto che tutti chiamavano semplicemente “i comunisti”: il centro culturale Nowy Świat, il mondo nuovo, uno spazio sull’omonima, grande via che è la strada principale per i turisti e il tempo libero, e per il resto era diventata una parata di ristoranti di lusso, fatta eccezione per una latteria e un bar che vendeva alcolici. Qui la rivista e laboratorio intellettuale della sinistra Krytyka Polityczna aveva uno spazio dove ballare, scolare alcol e ospitare dibattiti storici e politici da pesi massimi. Quello che succedeva di solito era più o meno lo stesso a cui avevo assistito per caso in quel lussuoso palazzo, un giovane socialista che discuteva con un liberale più anziano. Questo mi sembrava straordinario, come se la rivista Jacobin avesse un caffè a Broadway per ospitare dei gruppi di lettura.

Grazie al tempo che ho trascorso in questa parte del mondo, avrei scritto diversi libri direttamente sulla regione oppure trattandola come una parte integrante dell’Europa anziché come un’appendice. Nei miei libri avevo diversi conti in sospeso da regolare. Per esempio, mentre la posizione trotskista è che tutto andò sostanzialmente bene fino alla morte di Lenin o al più tardi fino all’espulsione di Trotskij, la mia idea personale del sistema era molto più complicata (sospetto che i trotskisti direbbero che è più confusa). La maggiore consapevolezza dell’assoluta brutalità della guerra civile rendeva assurda l’idealizzazione dei primi anni dopo la rivoluzione. Era altrettanto assurdo giudicare tutto perduto una volta che Trotsky era stato mandato in esilio. Ero e sono affascinato dall’intensità e dalla raffinatezza della vita intellettuale nella Polonia del dopoguerra (e in Jugoslavia, Ungheria, e perfino, nei primi anni sessanta e alla fine degli anni ottanta, in Unione Sovietica). Inoltre, imparando a conoscere il contratto sociale in questi paesi diventava chiaro che le differenze tra lo stato sociale a ovest e il “socialismo sviluppato” a est erano poche: ogni parte di questo contratto – gli alloggi, la sanità e l’istruzione – era più vicina tra est e ovest di quanto lo sia alla situazione di oggi. Per capirci, nel 1975 i sistemi degli alloggi popolari in Polonia o nel Regno Unito erano più simili tra loro di quanto lo siano ai sistemi degli alloggi nella Polonia o nel Regno Unito del 2019. Era anche divertente rendersi conto, lavorando sull’urbanizzazione nei paesi dell’ex patto di Varsavia, che la conservazione (o, spesso, la ricostruzione) degli storici paesaggi urbani non era un effetto collaterale del sistema, ma una politica deliberata.

Oggi, passati dieci anni, l’Europa centrale e quella orientale sono molto più discusse nella vita intellettuale britannica (e statunitense), ma trovo che spesso il quadro del discorso sia nella migliore delle ipotesi sospetto e nella peggiore razzista. L’idea della nuova guerra fredda – che la Russia, con le sue tasse piatte, le sue vergognose disuguaglianze e i suoi piacevoli spazi urbani pieni di gente alla moda, sia una sorta di terra desolata, dispotica e quasi socialista, con nientemeno che Donald Trump arruolato come una sorta di portatore d’acqua dei comunisti – è assurda. L’uso popolare del falso cirillico nelle immagini di questa “resistenza” ci dice quanto poco la gente sappia o s’interessi dei posti di cui sta parlando. Analogamente, l’idea che ci sia qualcosa di particolarmente esteuropeo nelle “democrazie illiberali” che stanno spazzando l’Unione europea è molto dubbia: Viktor Orbán è influente, ma prima di lui lo è stato Silvio Berlusconi (e prima di Berlusconi, Margaret Thatcher). L’estrema destra è una forza assai importante in Francia ed è al governo o in coalizioni di governo in Italia, Danimarca e Austria come in Polonia, Ungheria e Lettonia. Considerare il sovranismo, la manipolazione dei mezzi d’informazione e la violenza come fenomeni soprattutto dell’est è difficile se avete visto i manifesti della campagna del leave o se avete letto dei giornali durante il referendum sulla Brexit del 2016. Perfino una delle cose apparentemente più particolari dello spostamento a destra dell’Europa dell’est, la quasi riabilitazione dei fascisti locali e dei collaborazionisti, ha un corrispondente in Italia, Francia e Belgio.

Ma quello che sono arrivato a capire è soprattutto che al di fuori della vita intellettuale – dove c’erano e ci sono importanti differenze, con la Polonia che ha ancora una comunità intellettuale finanziata dallo stato ben più ricca di quella britannica, anche se all’interno di un dibattito politico tollerato molto ristretto – negli anni duemila e nei primi anni dieci nel nuovo secolo c’erano enormi somiglianze tra il Regno Unito e il cosiddetto est. Privatizzazioni infinite, spazio pubblico di qualità scadente, dominio delle auto private, ignoranza del cambiamento climatico, distruzione della pianificazione urbana a ogni livello tranne quello della conservazione, volonterosa partecipazione con un ruolo secondario a qualunque campagna di bombardamento voluta dagli Stati Uniti in qualsiasi momento, e la disponibilità a imporre una guerra economica agli inetti europei del sud (nell’Europa di oggi nord-sud è una divisione politica molto più importante di est-ovest): queste politiche uniscono Londra a Varsavia, Budapest, Bratislava, Bucarest, Riga e Kiev. Possiamo vedere le conseguenze di questo sventramento della sfera pubblica negli incendi mortali nei night club di Bucarest e nei grattacieli di Londra. Il Regno Unito ha più cose in comune con l’est che con la Svezia o la Germania. Eppure, la rinascita di una sinistra socialista organizzata – qualcosa di diverso dalle ong e dai vuoti partiti socialdemocratici dell’Europa centrale e orientale – non ha toccato l’ex Europa socialista. L’opposizione al neoliberismo viene ancora assimilata al nazionalismo, una trappola in cui molti democratici dell’Europa centrale e orientale si lanciano gioiosamente. Gli spostamenti a sinistra che si sono registrati in Francia, Spagna, Portogallo, Grecia e ora nel Regno Unito hanno un corrispondente solo nel successo di Sinistra unita in Slovenia (per ovvie ragioni, il rifiuto del socialismo in quella che era la Jugoslavia non è mai stato profondo come lo è stato altrove). 

L’idea (è divertente quanto sembri quella degli apologeti del vecchio sistema!) che a mancare nell’ex Europa socialista sia il capitalismo reale è ancora popolare tra i giovani. Qui se vedo una speranza, è negli sforzi senza frontiere del mondo intellettuale. Nel gruppo romeno CriticAtac, che ospita il portale transnazionale Lefteast. Nella rivista Kajet, con sede a Bucarest, impegnata per un “futurismo dell’est” che guarda di nuovo all’utopia. Nell’opera di poeti, artisti e scrittori di sinistra russi e ucraini che si oppongono al nazionalismo di entrambi i paesi, come si sente nella voce socialista senza alcun imbarazzo dell’artista e attivista russo Kirill Medvedev. Più vicino a casa (mia) è nel fatto che all’interno del Partito laburista alcune delle persone più in vista nella campagna per la libertà di movimento erano polacche e bulgare. Più le cose diventano “normali”, più questa normalità diventa squallida. E più tutti noi arriveremo a volere qualcosa di meglio, ovunque ci trovassimo nel 1989. 

Published 30 July 2019
Original in English
First published by Internazionale 1300 (Italian version)/ Eurozine (English version)

Contributed by Internazionale © Owen Hatherley / Internazionale / Eurozine

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