Uno scrittore indiano alla scoperta dell’Europa

 Dopo la frattura causata dalla seconda guerra mondiale, il Regno Unito cominciò ad allontanarsi dall’Europa. Nella letteratura inglese, gli anni cinquanta e sessanta furono quelli del Movement, con i poeti Philip Larkin, Kingsley Amis e il loro isolazionismo, o little englandism, che influenzò fortemente i contemporanei. Per uno scrittore britannico dell’epoca, niente era più fuori moda che sognare una vita europea. Eppure lo scrittore e critico d’arte britannico John Berger era consumato da quel sogno quando lasciò definitivamente l’Inghilterra, nel 1962, per stabilirsi prima a Zurigo e poi nel villaggio francese di Quincy, che rimase casa sua fino alla morte, nel gennaio 2017. Il trasferimento nel continente fu provocato dai suoi detrattori britannici, che non perdevano mai l’occasione di attaccarlo per il suo veteromarxismo. Ma quel viaggio di sola andata era per Berger anche un mezzo per realizzare una sua vecchia aspirazione artistica: andò in Europa perché voleva – come disse lui stesso – “diventare uno scrittore europeo”.

 È facile oggi scambiare il sentimento di Berger per eurocentrismo vecchio stile e lasciarsi sfuggire l’importanza centrale della parola “diventare”. Cosa puntava a ottenere imbarcandosi in questa sua missione? E cosa significava diventare uno scrittore europeo? Non era una questione di nazionalità, d’identità geopolitica, di radici personali? E Berger, in quanto britannico, non era comunque uno scrittore europeo? Ma non era questo che intendeva. L’Europa da cui si sentiva attratto non era tanto un insieme di stati quanto un’idea – un ideale – di patrimonio culturale condiviso che tutti potevano rivendicare. La tradizione europea, multilinguistica e multiculturale per definizione, non era un’eredità semplice. Era qualcosa per cui si doveva lavorare, qualcosa che bisognava guadagnarsi, e implicava una sorta di ricerca culturale, dal sé nativo all’altro straniero. Berger affrontò il compito di diventare uno scrittore europeo con un intenso coinvolgimento intellettuale nelle altre lingue, nelle altre storie. 

 Lo scrittore hindi Nirmal Verma arrivò in Europa un paio d’anni prima di Berger. Era un’Europa molto diversa: era dietro la cortina di ferro, nella Cecoslovacchia controllata dall’Unione Sovietica, lontana galassie dal miracolo economico dell’occidente post-bellico. Eppure Praga negli anni sessanta si stava aprendo. Assorbiva influenze da luoghi lontani come Hollywood (per la prima volta i cinema della città proiettavano film americani) e si stava trasformando in un centro importante per scrittori, artisti e studiosi le cui opere erano caratterizzate da una curiosità tipicamente europea per “lo straniero”. Lo stesso Verma beneficiava di questo nuovo cosmopolitismo. Era stato invitato a Praga dall’Istituto orientale, ricevendo una borsa di studio per tradurre in hindi romanzi e racconti di scrittori cechi contemporanei. 

 Verma non era nuovo all’arte della traduzione letteraria. Di fatto, la sua carriera di scrittore era cominciata con alcune traduzioni di classici russi dall’inglese all’hindi, opere di Lev Tolstoj, Aleksandr Kuprin e Aleksandr Fadeev. La russofilia di Verma si spiega in parte con il fatto che quando studiava all’università di Delhi si era iscritto al Partito comunista (ne aveva ripudiato l’ideologia dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956). Ma si lega anche a fattori diversi dalla politica. 

 La letteratura hindi si arricchisce con le transazioni linguistiche da quando Munshi Premchand, padre tutelare della moderna narrativa hindi, scoprì le traduzioni inglesi dei racconti di Rabindranath Tagore, originariamente scritti in bengalese (lo stesso Premchand scriveva in due lingue, hindi e urdu). Perciò non c’era nulla d’insolito in un aspirante scrittore hindi che sapeva destreggiarsi con le lingue, leggeva voracemente testi tradotti e fin da giovane aveva sviluppato la sensibilità multilingue di un traduttore. Da adolescente, Verma si era già appassionato alla letteratura russa leggendo in traduzione Maksim Gorkij, Anton Čechov e altri scrittori. E molto prima di trasferirsi a Praga aveva conosciuto le opere di diversi autori cechi, fra cui il poeta Miroslav Holub. 

 Negli anni che trascorse a Praga, dal 1959 al 1968, questa conoscenza si trasformò in familiarità. Un corso intensivo gli dette delle buone basi di ceco e ben presto cominciò a tradurre in hindi le opere di Karel Čapek, Bohumil Hrabal, Jan Otčenášek e non solo. Due dei primi racconti di Milan Kundera, pubblicati nella raccolta Amori ridicoli, apparvero nella traduzione hindi di Verma anni prima che l’occidente anglofono li conoscesse o scoprisse il loro autore. Le traduzioni di Verma spalancarono nuove porte ai lettori hindi dell’India. E nello stesso tempo ebbero un ruolo vitale nella sua scoperta, o meglio riscoperta, dell’Europa da parte dello scrittore.

“Se non impariamo a tradurre la letteratura europea direttamente in hindi senza la mediazione dell’inglese, la nostra comprensione dell’Europa rimarrà estremamente superficiale, generica e limitata”, scriveva Verma in Har baarish mein (Ogni volta che piove), un saggio su come gli indiani percepiscono l’Europa. Lo spettro dell’Inghilterra, sosteneva, aveva offuscato l’Europa per generazioni di indiani. In più, il dominio globale della lingua inglese non faceva che isolare ulteriormente il vecchio continente dal resto del mondo. Chi voleva stabilire un vero contatto con l’Europa, quindi, doveva rifiutare qualunque tipo di presupposto anglocentrico, storico, politico o culturale. Per incontrare veramente l’Europa bisognava riscoprirla. Non il monolite che si trova nei libri di storia, ma l’Europa delle convergenze e delle differenze celebrata da Walter Benjamin quando cominciò a tradurre in tedesco le opere di Charles Baudelaire, e da Baudelaire quando, colpito dalle melodie di Wagner, scrisse in una lettera al compositore: “Mi sembrava che questa musica fosse mia”.

Significativamente, gli scritti di Verma degli anni europei non esprimono nessun sentimento di nostalgia o di rimpianto per lo stile di vita indiano. La sua non è letteratura dell’esilio. Come scrittore in una terra straniera, rifiuta la malinconia dell’emigrante e trasmette invece la sensazione di essere a casa con l’immaginazione, il che raramente è associato alla creatività. Tutti gli scrittori sono in certa misura degli outsider, degli estranei, nelle società in cui vivono. Ma il grande punto di forza di Verma era saper scrivere come un insider, come uno all’interno, perfino in contesti teoricamente estranei. Per lui quella di casa non era un’idea prestabilita: era legata alle possibilità creative, all’ispirazione, che può sorprenderti in qualunque luogo.

Il suo primo romanzo, Ve din (tradotto in inglese come Days of longing), è ambientato a Praga. È forse il primo romanzo indiano, sicuramente il primo romanzo hindi, interamente ambientato in una città occidentale. Pubblicato nel 1964, Ve din ruota intorno a un gruppo di personaggi internazionali: quattro studenti – un indiano, un birmano, un tedesco e un ceco – più una misteriosa visitatrice austriaca. Il romanzo è un tributo alla diversità, e in quanto tale è molto europeo. Il suo narratore indiano, che conosce benissimo il ceco, accetta un lavoro part-time come interprete e accompagna la turista austriaca in un giro per Praga, con conseguenze sentimentali. Ma non è solo il narratore che sta facendo l’interprete, è anche l’autore, perché incontra noi lettori nella sfera dell’hindi, decisamente lontana dall’ambiente originale della storia.

Come tutte le grandi opere di narrativa, Ve din crea un’illusione di vicinanza invece dell’alienante prospettiva giornalistica della distanza. I caffè, le strade e i tram di Praga, i suoi lampioni stradali e le vetrine, il mutare della luce durante il giorno: tutto è evocato con affetto. Ogni dettaglio ci ricorda che in realtà questa è una storia d’amore tra lo scrittore e una città. In un momento della sua visita guidata, il narratore dice di sentire “quella particolare curiosità che a volte provi quando guardi la tua città con gli occhi di qualcun altro”. Non c’è nessuna intenzione ironica in questa frase (anche se è facile cogliere un rovesciamento di ruoli postcoloniale: un indiano che considera straniera un’austriaca, “una presenza diversa” all’interno dell’Europa). Riconferma semplicemente le credenziali del narratore come autentico praghese e ci fa capire quanto completamente l’autore fosse arrivato ad accettare questa città come una seconda casa.

Prima della sua quasi totale scomparsa dietro la cortina di ferro, Praga era una grande città internazionale che rivaleggiava con Parigi o Vienna e le eclissava addirittura. Il suo nome ceco, Praha, è legato alla parola prah, che significa “soglia”, e gli abitanti si vantano di questo rapporto per sottolineare il ruolo storico della città come luogo di accesso all’Europa. Era una città orgogliosa del suo retaggio continentale, della sua identità europea. Se ti sentivi di casa a Praga voleva dire che ti saresti sentito di casa in qualunque parte d’Europa. O almeno era così per Verma, che spesso varcava la soglia di Praga per entrare nel più ampio panorama europeo, mettendosi in viaggio ogni volta che aveva tempo e denaro.

Il libro di viaggi di Verma, Cheedon par chandani (Chiaro di luna sui pini) precede Ve din di un paio d’anni. È uno dei primissimi contributi a quello che allora era un genere molto embrionale di letteratura di viaggio hindi. Il libro comprende il resoconto di una lunga spedizione da Praga fino a Reykjavik via Berlino, Parigi ed Edimburgo. È “un’escursione di grande piacere” in stile Mark Twain, anche se la sensibilità di Verma come viaggiatore è lontanissima dal disprezzo misantropico (e comico) di Twain. Verma è invece guidato dalla compassione, tanto per la gente quanto per la terra desolata del dopoguerra che incontrava in alcune parti d’Europa. A Berlino, per esempio, fu colpito nel vedere i palazzi vuoti dove un tempo vivevano famiglie ebree. Altrove, nella stessa città, trovò strutture bombardate, completamente vuote all’interno ma con le facciate ancora intatte, come antiche rovine.

Sono scorci di un’Europa che si stava ancora riprendendo dal trauma della seconda guerra mondiale. Doveva ancora essere ricostruita e ci sarebbero voluti decenni perché si reinventasse come primo mondo. I racconti di viaggio di Verma ci riportano a quel curioso interregno nella storia dell’Europa moderna, quando molte cose stavano per svanire e molte altre per nascere. Nel 1961, quando Verma andò per la prima volta a Berlino, mancavano solo pochi mesi alla trasformazione della città nel simbolo dell’Europa divisa: i lavori di costruzione del Muro cominciarono nell’agosto di quell’anno. Quando visitò Parigi, più o meno nello stesso periodo, scoprì che lo spirito bohémien della città era ancora vivo nei caffè e nei cabaret di Montmartre. E in Islanda trovò una cultura che non era così lontana dal resto del continente come oggi ci sembra.

Durante il viaggio a Reykjavik, Verma trascorse una giornata con Halldór Laxness, lo scrittore islandese che nel 1955 aveva ricevuto il premio Nobel per la letteratura, tuttora l’unico Nobel vinto dall’Islanda. Parlarono di libri e viaggi, di letteratura e società, del periodo che Laxness aveva passato in India, di una cena a cui era stato invitato a Bombay, dove i padroni di casa lo avevano scambiato per Aldous Huxley. Tutto questo e altro ancora è riportato nel capitolo di Cheedon par chandani dedicato a Laxness. Ma al di là degli aneddoti, il lettore è colpito dalla varietà letteraria del colloquio, che spazia dalle saghe islandesi alla poesia di Tagore, ricordandoci che entrambi gli scrittori abbracciavano quella sorta d’internazionalismo culturale oggi fuori moda.

Queste scoperte e questo grado d’immersione nella cultura europea sarebbero stati impossibili per Verma se avesse scelto di lasciare Praga alla fine dei due anni di borsa di studio, come aveva inizialmente previsto. Che sia restato nove anni è una prova del suo grande amore per la città e per le amicizie durature che aveva stretto. Nel 1968, quando dovette trasferirsi nel Regno Unito per accompagnare la moglie, dette un addio riluttante alla città che ben presto sarebbe diventata la capitale incubo d’Europa. Il 1968 fu un anno cruciale nella storia dell’Europa contemporanea.

Si aprì con una nota di ottimismo. L’esperimento cecoslovacco con i valori liberali sotto il regime sovietico aveva fatto sembrare che il socialismo dopo tutto avesse davvero un volto umano. Perfino un incallito anticomunista post-1956 come Verma fu elettrizzato dalla primavera di Praga. In una lettera di quel periodo al fratello, Verma scriveva: “È un tipo di rivoluzione completamente nuovo per l’Europa dell’est, nel giro di una notte è scomparsa la censura”. Ma ben presto la stagione politica volse al peggio, dalla primavera a un’estate rovente. Le autorità sovietiche decisero di giocare la loro carta più aggressiva – l’invasione militare – per dare una lezione alla sinistra. E prima che Verma potesse cominciare la sua nuova vita in Inghilterra i carri armati entravano a piazza San Venceslao. Uno dei più poderosi saggi di Verma è dedicato alle tenebre che si addensavano su Praga nel periodo immediatamente precedente l’invasione sovietica. Praga: un sogno è il resoconto degli ultimi giorni dell’autore nella “città delle prime pagine, dei pericoli e delle dicerie”. Ovunque domina un’atmosfera di preoccupazione, perfino di panico. L’ottimismo sopravvive solo nelle false illusioni. “Ma l’Ungheria era diversa”, obiettava un’anziana quando Verma le aveva citato il terribile precedente del 1956, l’invasione sovietica dell’Ungheria comunista. Se è potuto succedere là, può succedere anche qui, ragionava Verma. Aveva il presentimento che la catastrofe fosse imminente. Per questo tutte le proteste di piazza e le file per firmare petizioni gli sembravano completamente inutili, ma anche tragicamente eroiche. Qualche anno dopo, quando il peggio era passato – o almeno sembrava passato al mondo esterno – Verma tornò a Praga per una breve visita, con il pretesto di partecipare a un seminario. Incontrare i vecchi amici, che stavano disperatamente cercando il modo di lasciare il paese, fu demoralizzante. Ancora più deprimenti erano i racconti su amici e conoscenti che erano stati incarcerati o si erano visti stravolgere l’esistenza. Insigni studiosi che un tempo aveva frequentato ora facevano i tassisti o i lavavetri.

“Camminando nei silenziosi vicoli di Praga, penso tra me e me che in questo paese ho passato gli anni migliori e più decisivi della mia vita”, scriveva Verma negli anni settanta. Per molti versi, l’esperienza praghese lo aveva reso lo scrittore che era. L’obiettivo che John Berger si diede nel 1962, Verma sembrò raggiungerlo dopo aver trascorso quasi dieci anni in Europa. Quando fu pronto a tornare in India, era già uno scrittore europeo.

I critici di Tagore affibbiavano spesso al suo lavoro l’etichetta di “europeo” considerandolo un insulto (lo storico e romanziere britannico Edward John Thompson una volta definì sprezzantemente Tagore “uno scrittore europeo bengalese”). Nella comunità hindi, i detrattori di Verma adottarono la stessa strategia, ribattezzandolo “uno scrittore europeo hindi”. Perfino gli ammiratori avevano delle riserve su quella che consideravano la sua vena eurocentrica, che bisognava riscattare con un po’ di amore per l’India. Nel migliore dei casi, era visto come un uomo che aveva perso la strada prima del ritorno a casa, a metà degli anni settanta, e dell’accoglienza da figliol prodigo che gli fu riservata.

Quest’idea di Verna e del suo “ritorno” di fantasia in India in qualche misura è giusta. Nella seconda metà della sua carriera, Verma diede inizio a un’esplorazione più cosciente, e coscienziosa, dell’indianità, soprattutto con il suo interesse per la filosofia indù, che alcuni suoi colleghi considerarono un vero e proprio tradimento dei principi laici, e con analisi culturali comparate in cui l’India era sempre il punto di riferimento centrale. Cominciò a scrivere saggi che avevano titoli come La cultura indiana e la nazione, Il sogno e la responsabilità dello scrittore indiano o Cosa significa per me essere indiano. Verma a questo punto stava anche sviluppando un’idea più indiocentrica dell’Europa. Nel pensiero europeo riusciva cogliere degli aspetti di quella che riconosceva come sensibilità indiana (un altro significativo rovesciamento postcoloniale, anche se non aveva un’ispirazione politica). “Goethe fu l’ultimo pensatore europeo a essere vicinissimo alla sensibilità globale della tradizione indiana, dove esseri umani e natura, invece di essere visti come due entità separate e contrapposte, sono iscritte in un’unica coscienza monastica”, scriveva Verma nel suo saggio Il ruolo di un intellettuale indiano.

Non diversamente dagli orientalisti europei che intraprendevano viaggi in oriente per una scoperta spirituale di sé, Verma si riteneva un occidentalista indiano che scopriva se stesso attraverso l’occidente e il suo rapporto con lui. In una conferenza del 1988 all’università di Heidelberg, in Germania, intitolata India ed Europa: aree di risonanza, Verma citò il filosofo indiano Jarava Lal Mehta, noto studioso di Heidegger, su come il viaggio che ci porta “attraverso lo straniero e lo strano” è l’unico mezzo per riscoprire se stessi. “Sarebbe sicuramente un viaggio lunghissimo”, disse Verma, “durante il quale dovremmo attraversare il paesaggio montuoso della cultura europea per raggiungere, alla fine, la destinazione che ci eravamo prefissati”. In questo senso, l’Europa fu una pietra di passaggio per lo scrittore indiano in formazione. Bisognava fare i conti con la storia e il patrimonio letterario dell’Europa se si voleva diventare uno scrittore indiano.

John Berger non voleva allinearsi a una tradizione in particolare. Di fatto era tra i critici più accaniti della società europea, dei suoi radicati pregiudizi di classe rafforzati da forme artistiche borghesi. Eppure era attratto da qualcosa di dinamico, qualcosa di vivo nella tradizione europea: forse dalla sua tendenza, come scrisse una volta, “a rompere con il suo stesso retaggio o a trasformarlo” di continuo. In ogni caso, una delle grandi lezioni che Berger ci ha lasciato con i suoi scritti e la sua filosofia dell’arte è che le tradizioni artistiche possono essere radicalmente riplasmate dall’interno, da artisti che si battono contro i modi convenzionali di pensare, o dall’esterno, da noi, i consumatori dell’arte, se scegliamo di adottare modi di vedere diversi.

Per Berger, il sogno di diventare uno scrittore europeo scaturiva sicuramente dal suo incessante desiderio di spezzare le catene della tradizione. Essere uno scrittore europeo, per lui, significava partecipare a questo continuo plasmare e riplasmare la propria tradizione. Significava ribellarsi al tipico impulso dello scrittore a trovare una casa e sistemarsi. Lo stesso tipo d’irrequietezza è presente nell’iconoclastia del movimento medievale indiano bhakti, come anche nel freddo cosmopolitismo dei poeti di Bombay. Ed è sicuramente presente in gran parte delle opere di Verma. Fu denigrato da alcuni come europeo mancato e acclamato da altri come indiano rinato. Ma la verità è che le opere di Verma non appartengono a una tradizione codificata, ed è in questo senso che sono autenticamente indiane e allo stesso tempo autenticamente europee. 

 

Published 18 September 2020
Original in Swedish
First published by Ord&Bild 1–2/2020 (Swedish version); Eurozine (English version)

Contributed by Internazionale © Vineet Gill / Ord&Bild / Internazionale / Eurozine

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Photo via Barbjerik Ference from Fortepan.hu

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